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15/10/2010 14:20 | |
Lasciano correre, sono carine, gentili e concilianti, non alzano mai la voce, ma poi soffrono in silenzio: è come una maledizione che si tramanda di madre in figlia. Ecco come e perché spezzare la catena
«È tanto una brava ragazza». Lascia sempre correre, è modesta, carina, gentile e conciliante, non alza mai la voce, è tollerante, altruista. Affidabile sul lavoro, studiosa a scuola: lei sì che non crea mai problemi. Ma sarà davvero felice? Non sarà invece che mette da parte le sue spinte emotive, le sue legittime aspirazioni e i suoi istinti in un'angosciosa ricerca di approvazione? E che insomma, in definitiva, sarebbe meglio essere un po' meno "brava" e credere un po' di più in se stesse? Ne è convinta Rachel Simmons - insegnante, educatrice e saggista statunitense impegnata da anni nello studio dei comportamenti sociali delle ragazze adolescenti e dell’autodeterminazione femminile in età giovanile - autrice de "La maledizione della brava ragazza" (Edizioni Nutrimenti), più che un saggio un manuale di self help per imparare a spezzare la catena. Già, perché secondo l'autrice l'essere buone è una tradizione famigliare, un'eredità e un vincolo che si tramanda di madre in figlia.
Brave si comincia a esserlo da piccole, attraverso l'educazione e i rapporti con la figura femminile di riferimento, si continua durante gli anni della scuola attraverso i riti di "riconoscimento" del gruppo di coetanei (come sono reali le testimonianze riportate dall'autrice: quasi impossibile non riconoscersi nemmeno in una), e poi ancora nell'età adulta, sul lavoro , nel rapporto con il partner e infine in quello con i figli - e soprattutto con le figlie - alle quali trasmettere questo ingombrante bagaglio. D'altra parte anche lo stereotipo della brava ragazza - «corretta, educata, entusiasta, fa tutto bene, segue le regole, non si arrabbia, rispettosa» - e quello della cattiva- «insolente, vuol stare al centro dell’attenzione, parla a voce alta, dice quello che pensa» dipinti dalle adolescenti intervistate dall'autrice fa pensare e impensierire. "Le brave ragazze vanno in paradiso le cattive dappertutto ", sosteneva la psicologa tedesca Ute Ehrhardt in una ipotesi poi diventata di culto un decennio fa, per la quale soltanto smettendo di essere «brave ragazze» si può diventare donne vere, vincenti. È che in realtà essere davvero brave ragazze è praticamente impossibile, sostiene ora la Simmons.
Quante vittime ha fatto l'aspirazione alla perfezione! Troppo stretti i confini di un’identità imposta da fuori, troppo difficile a queste condizioni la realizzazione personale: ed è così che questa aspirazione frustrata si trasforma spesso in una caduta verticale della propria autostima. La brava ragazza è convinta di non essere all'altezza: e così è crede che la sua migliore amica ce l'abbia con lei soltanto perché magari quel giorno non l'ha salutata con il solito entusiasmo perché aveva la testa altrove. La brava ragazza evita i conflitti, e così chiede sempre "scusa" e dice "mi dispiace" anche se non lo pensa sul serio. La brava ragazza giustifica sempre gli altri, mai se stessa, e tiene sopra ogni cosa alla propria reputazione. La brava ragazza ha paura di sbagliare, è come paralizzata: e così preferisce farsi da parte, rinuciare. Compiacere gli altri presto o tardi diventa una gabbia, molto meglio essere migliori amiche di se stesse. E se non è un buon consiglio questo...
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